
Quando ero ragazzo, molti decenni fa, a scuola mi insegnavano che "'l'America", cioè gli Stati uniti, erano il paese del petrolio, con i suoi pozzi del Texas e della California che permettevano di esportare petrolio in tutto il mondo.
All'inizio del XXI secolo gli Stati uniti devono importare il 40 per cento del petrolio che il paese consuma per la sua flotta di automobili e aerei e per produrre concimi, plastica, elettricità.
I favolosi pozzi del Mare del Nord si stanno lentamente esaurendo anch'essi.
Nuovi paesi esportatori del petrolio dominano il mercato a cui attingono tutti i paesi industrializzati.
Ma in tutto il mondo le RISERVE di petrolio si stanno impoverendo.
Ad un ritmo di estrazione vicino a 3 miliardi e mezzo di tonnellate all'anno, le RISERVE complessive mondiali, stimate fra 150 e 200 miliardi di tonnellate, sono destinate a durare poco.
Si avvicina lo spettro del "massimo di Hubbert", così chiamato dal nome di King Hubbert (1903-1989), un geofisico che ha studiato come varia col tempo la produzione di petrolio nei vari paesi e nel mondo intero.
La produzione annua, nel corso degli anni, segue una curva "a campana": raggiunge un massimo e poi declina.
Nel caso della produzione mondiale, il massimo della produzione petrolifera si dovrebbe raggiungere in un qualche anno del primo decennio del 2000, e dopo tale produzione comincerà a diminuire.
Negli Stati uniti il "massimo di Hubbert" è stato raggiunto nel 1975 e da allora la produzione sta diminuendo e le importazioni stanno aumentando: non per niente il paese più industrializzato del mondo ha disperato bisogno di controllare politicamente e militarmente i paesi petroliferi del Golfo Persico.
E' curioso che così poca attenzione sia prestata a questo problema in Italia, che pure dipende dalle importazioni di 100 milioni di tonnellate all'anno di petrolio per far funzionare le centrali elettriche, le fabbriche, le automobili, per riscaldare le case.
Alcuni dicono: l'idrogeno ci salverà.
Di IDROGENO ci sono RISERVE sterminate sul pianeta: l'acqua ne contiene l'undici per cento; l'idrogeno è un gas combustibile e quando brucia libera, insieme al calore, VAPORE ACQUEO e quindi non dovrebbe contribuire all'EFFETTO SERRA responsabile dei mutamenti climatici.
L'idrogeno è pericoloso da trattare, ma è possibile immagazzinarlo in serbatoi sotto pressione che potrebbero essere caricati sugli autoveicoli e sui treni; ancora meglio è possibile usare l'idrogeno per ottenere direttamente elettricità con le "celle a combustibile".
Di recente è uscita la traduzione italiana di un libro di Jeremy Rifkin (di cui alcuni lettori ricorderanno altri libri sull'ENTROPIA e contro l'abuso del consumo di carni), intitolato: "L'economia all'idrogeno" (Mondadori), che spiega come è possibile edificare una società basata sull'idrogeno, meno inquinante.
Oltre che nell'acqua, l'idrogeno è presente nel METANO (il principale costituente del GAS NATURALE) che ne contiene il 25 %; nel petrolio.
Inoltre il carbone può essere trattato ad alta temperatura con VAPORE ACQUEO e in questi modo si libera idrogeno, insieme ad ossido di CARBONIO.
Il carbone è abbondante nel mondo ma il sottoprodotto che si forma insieme all'idrogeno, l'ossido di CARBONIO, può essere eliminato soltanto bruciandolo e così siamo ancora alla trappola dell'EFFETTO SERRA.
L'idrogeno può essere recuperato dagli idrocarburi come METANO e petrolio, ma si casca nell'altra trappola di dover dipendere da fonti energetiche scarse; d'altra parte il petrolio e il METANO rappresentano gli attuali carburanti per autotrazione, comodi anche se scarsi in natura e inquinanti, e non si capisce perché si dovrebbero trasformare in idrogeno, tanto più scomodo.
L'unica ragionevole strada per realizzare una società dell'idrogeno consiste nel separare l'idrogeno all'acqua sottoponendola ad elettrolisi: la CORRENTE elettrica libera dall'acqua IDROGENO e ossigeno; per ragioni ineluttabili, però, la quantità di energia che si deve "spendere" per ricuperare l'idrogeno è maggiore della energia che l'idrogeno libera quando viene bruciato in un motore o in una centrale.
Ma l'inconveniente maggiore è che l'elettricità, necessaria per ottenere IDROGENO dall'acqua, è una fonte di energia e una merce pregiata e che si può ottenere, a sua volta, solo da altre fonti di energia.
Oggi l'elettricità è prodotta bruciando prodotti petroliferi, METANO o carbone, cioè proprio quelle fonti di energia che si vuole evitare di usare perché sono scarse o perché sono inquinanti.
Inoltre non ha senso consumare METANO o petrolio per produrre elettricità per produrre idrogeno, con perdite di valore energetico in ciascuno di questi passaggi.
I sostenitori della boccheggiante energia nucleare pensano che la nuova società dell'idrogeno renda possibile una qualche resurrezione delle centrali nucleari, che producono elettricità, ma ad alto costo monetario e soprattutto ad altissimo, inaccettabile, costo ambientale perché lasciano come sottoprodotti scorie radioattive pericolose per decenni e secoli.
L'economia dell'idrogeno, come spiega Rifkin, si può attuare soltanto ricorrendo a fonti di elettricità RINNOVABILI, cioè all'energia idroelettrica, e a quella che si può ottenere dal Sole e dal vento.
A parte le difficoltà associate alla creazione di nuove grandi dighe e centrali elettriche sui grandi fiumi internazionali, dal Congo al Rio delle Amazzoni, al Gange, all'Indo, al Fiume Giallo, la auspicabile - e forse ineluttabile - futura società dell'idrogeno comporta una profonda rivoluzione non solo economica, non solo tecnica (la necessità di riprogettare di sana pianta gli autoveicoli), ma anche geopolitica.
Rispetto alle attuali grandissime centrali, la cui elettricità deve essere trasportata a centinaia e migliaia di chilometri di distanza, le centrali solari o eoliche che produrranno elettricità per alimentare le fabbriche e i generatori di IDROGENO devono essere decentrate nel territorio, probabilmente diffuse proprio nel Sud del mondo.
I paesi oggi arretrati potrebbero diventare i produttori di un carburante non inquinante, l'idrogeno appunto, per le necessità locali e per l'esportazione.
L'anno prossimo cadono trent'anni dalla prima grande crisi petrolifera che pose brutalmente il mondo davanti allo spettro della scarsità del petrolio.
C'è da augurarsi che le università e i centri di ricerca governativi affrontino i problemi del futuro prestando attenzione anche a soluzioni meno convenzionali delle attuali.