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Le centrali nucleari. L'energia che scaturisce dal bombardamento dell'uranio con neutroni. Il processo di 'fissione/fusione nucleare'. Il problema della radioattività e delle scorie.

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Deposito e smaltimento dei materiali radioattivi - Piero Risoluti -

INDICE
1. Origine e caratteristiche dei rifiuti radioattivi

2. Combustibile irraggiato e rifiuti radioattivi

3. Lo smaltimento

   3.1 Lo smaltimento dei rifiuti a vita breve

   3.2 Lo smaltimento dei rifiuti a vita lunga

1.Origine e caratteristiche dei rifiuti radioattivi

I rifiuti radioattivi vengono prodotti nelle varie attività connesse con la produzione elettronucleare, che includono i processi di lavorazione del combustibile nucleare, le operazioni della centrale elettronucleare e le relative attività di ricerca di base ed applicata. Sono costituiti da soluzioni liquide contenente i radionuclidi (in particolare provenienti dalle lavorazioni del combustibile o da operazioni di decontaminazione), o da solidi contaminati di varia natura e origine (residui metallici di elementi di combustibile, polveri, resine, strumenti ed apparecchiature dismesse, materiale di consumo, ecc.).

Quantitativi limitati di rifiuti radioattivi, rispetto a quelli prodotti dall’industria e dalla ricerca nucleare, si generano nelle applicazioni della tecnologia nucleare in medicina, industria, agricoltura, ricerche ambientali, ecc (si tratta di materiali classificati in genere come sorgenti).

Dopo la produzione i rifiuti radioattivi  possono essere soggetti a vari trattamenti intermedi di tipo chimico e fisico diretti a ridurne il livello di attività o semplicemente il volume, come la concentrazione nel caso dei liquidi o la compattazione nel caso dei solidi.

Lo stadio fondamentale della loro gestione è tuttavia il condizionamento, cioè la loro trasformazione in blocchi di materiale inerte e resistente, e come tale idoneo allo smaltimento, o deposito definitivo.
Le operazioni di condizionamento avvengono di solito nello stesso impianto o sito in cui vengono generati allo stato liquido o solido, anche se non è infrequente il caso, in particolare quando si tratta di piccole produzioni, del loro trasporto in impianti di condizionamento centralizzati. Il condizionamento, inoltre, avviene di solito dopo un periodo più o meno prolungato di STOCCAGGIO dei rifiuti prodotti, variabile a seconda delle esigenze operative o della disponibilità o meno di impianti idonei al condizionamento.

La ricerca diretta alla segregazione degli effluenti radioattivi liquidi e solidi in materiali dotati di grande stabilità fisica e chimica, cominciata agli inizi degli anni ‘60, quasi in concomitanza con l’avvio dei primi reattori commerciali, ha portato alla identificazione e al definitivo sviluppo di due fondamentali processi di condizionamento, la cementazione e la vetrificazione, che hanno raggiunto la piena maturità tecnologica ed industriale negli anni ’80.

I due processi, che consistono nell’inglobamento dei rifiuti in matrici cementizie o vetrose, sono applicati rispettivamente per i rifiuti a bassa attività, detti anche a vita breve, e per quelli ad alta attività, o a vita lunga1 .
Le ragioni per cui si cercò di specializzare processi e materiali così diversi vanno ricercate nella differenza, fondamentale ai fini della loro gestione e soprattutto dello smaltimento, che esiste fra le due tipologie di rifiuti.

I rifiuti a bassa attività sono quelli che contengono solo isotopi radioattivi a vita breve, e li contengono in bassa concentrazione, cioè al di sotto di un determinato limite.
A vita breve significa che i radioisotopi decadono completamente in tempi dell’ordine dei secoli: si considerano a vita breve quelli con tempi di decadimento (il tempo in cui il numero degli atomi radioattivi si dimezza) fino a trenta anni. In trecento anni, cioè in un periodo pari a dieci volte il loro tempo di decadimento, per una legge fisica il livello di radioattività di questi radioisotopi si abbassa di mille volte.

I rifiuti a bassa attività sono pertanto quelli in cui la concentrazione iniziale di radioisotopi è tale che l’abbassamento di mille volte comporta un loro quasi completo spegnimento, o comunque il raggiungimento di un livello minimo di radioattività considerato non pericoloso per l’uomo e l’ambiente, secondo i criteri di radioprotezione stabiliti dalle Organizzazioni internazionali. (Tale limite minimo, giova ricordarlo, è sempre inferiore al valore della radiazione di fondo media della terra.) E’ per questo che i trecento anni vengono presi a base per stabilire i criteri per lo smaltimento dei rifiuti a vita breve.

Quando invece nei rifiuti sono presenti isotopi a vita lunga e/o isotopi a vita breve ma in grande concentrazione, i rifiuti sono ad alta attività.
In questi rifiuti un esaurimento della emissione radioattiva, o la sua riduzione ai livelli di soglia considerati non pericolosi, si consegue soltanto dopo periodi che vanno dai millenni alle centinaia di migliaia di anni.

I rifiuti ad alta attività possono inoltre essere caratterizzati da un contenuto termico elevato, dovuto al calore dissipato dalla intensa radiazione residua (se sono in forma liquida, alcuni di questi rifiuti radioattivi appena prodotti vanno spontaneamente all’ebollizione). Per questo un materiale cementizio, che al di sopra di una certa temperatura comincia a degradarsi, non è adeguato per il loro condizionamento. Ed è per questo che si è presa in considerazione la loro trasformazione in blocchi di vetro, materiale com’è noto altamente resistente al calore, oltre che praticamente inattaccabile da agenti chimici anche aggressivi (si sono trovati oggetti di vetro, peraltro di qualità rudimentale, in navi antiche affondate nei mari più di duemila anni fa). Viceversa, per i rifiuti a vita lunga ma senza contenuto termico, come sono ad esempio quelli contenenti tracce di plutonio, in certi casi viene applicata la cementazione.

Resta da dire, per concludere questa schematica descrizione delle tipologie di rifiuti radioattivi, che quelli a bassa attività costituiscono in termini volumetrici circa il 95% dell’intera produzione. Quelli ad alta attività e/o a vita lunga contengono tuttavia nel loro 5% circa il 98% dell’inventario totale di radioattività.

(Per completare il quadro si deve aggiungere che attualmente diversi paesi, tra cui gli USA, non ritrattano il combustibile irraggiato per separare i prodotti di fissione ed il plutonio prodotto, ma lo smaltiscono direttamente, in speciali contenitori, per cui per loro i rifiuti ad alta attività sono costituiti dallo stesso combustibile scaricato dalle centrali.)

Cementazione e vetrificazione si sono definitivamente affermati come processi di condizionamento solamente dopo che per molti anni i materiali candidati erano stati sottoposti a collaudi particolarmente severi e prolungati onde verificarne la resistenza ad agenti esterni ed il comportamento a lungo termine.

Ricordiamo alcune delle prove più comuni: cicli termici estremi e ripetuti, immersione in acqua di mare per mesi, attacco di agenti corrosivi per lunghi periodi, resistenza al fuoco, resistenza alle radiazioni, resistenza a COMPRESSIONE, persino resistenza ad attacco di batteri. Anche il manufatto finale previsto (si intende con questo l’insieme costituito dal materiale di inglobamento dei rifiuti e dal suo contenitore di acciaio esterno, di varie geometrie) subisce collaudi diretti a verificarne le caratteristiche meccaniche e ad accertarne la resistenza a impatti violenti.

E’ solo dopo aver superato indagini di questo tipo che il materiale selezionato come matrice di condizionamento ed il manufatto finale possono essere certificati, e la CERTIFICAZIONE, fatto questo di importanza fondamentale per la sicurezza nucleare, viene rilasciata da un organismo “terzo”, cioè da una pubblica ed indipendente (almeno nei paesi democratici) autorità di controllo.

2. Combustibile irragiato e rifiuti radioattivi 

Quando in una centrale elettrica convenzionale vengono bruciati GAS NATURALE, olio minerale o carbone, i combustibili scompaiono quasi completamente, nel senso che finiscono quasi completamente in fumo.
Il combustibile che alimenta una centrale elettronucleare è viceversa un manufatto industriale, denominato elemento di combustibile, costituito da una struttura metallica contenente il materiale energetico (cioè il combustibile uranifero vero e proprio), che viene inserito nella caldaia per generare calore e scaricato, senza aver subito trasformazioni meccaniche, quando ha fornito un determinato quantitativo di energia. Il ruolo che nel caso dell’energia nucleare gioca il combustibile, del tutto diverso evidentemente da quello che ha nella combustione FOSSILE, ha comportato che attorno ad esso nascesse un settore specifico della tecnologia nucleare, che è stato definito del ciclo del combustibile, a cui ha corrisposto peraltro un settore industriale e commerciale a sua volta specializzato, parallelo e complementare a quello dei reattori.

E’ a questa fase del ciclo del combustibile nucleare, a valle della permanenza in reattore (il cosiddetto back-end), che nell’ultimo ventennio sono state dedicate le maggiori attenzioni, per gli aspetti tecnici ed ambientali, quindi in ultima analisi anche politici, che vi sono coinvolti.

Nell’elemento di combustibile nucleare durante la permanenza nel reattore si accumulano isotopi radioattivi di nuova formazione, sottoprodotti della reazione di fissione. Di tutta la radioattività artificiale generata dall’utilizzo dell’energia nucleare, il 98% circa si ritrova all’interno di questa struttura metallica costituita dall’elemento di combustibile che viene scaricata dal reattore quando ha prodotto l’energia termica. La restante frazione si ritrova quasi tutta nei rifiuti radioattivi prodotti direttamente dall’attività della centrale (prevalentemente nei sistemi di purificazione dei circuiti idraulici che servono alla rimozione del calore prodotto), oppure nei processi di lavorazione del combustibile uranifero fresco diretti alla fabbricazione del combustibile nucleare destinato alla centrale. Per il 98% quindi, cioè quasi completamente, il problema della sistemazione dei rifiuti radioattivi è il problema della sistemazione del combustibile irraggiato.

E’ chiaro che, pur se non cambia l’inventario globale di sostanze radioattive che dovranno essere sistemate nell’ambiente esterno, la loro gestione si presenta assai diversa se l’elemento di combustibile che le contiene viene messo via così com’è, oppure se viene sottoposto a ritrattamento, cioè in pratica tagliato in pezzi e lavorato chimicamente. Quello che nel primo caso rimane confinato nella struttura metallica dell’elemento, in caso di ritrattamento si ritrova distribuito in diversi flussi di materiale liquido e solido in uscita dall’impianto. Volumi, pesi e tipi di materiali finali da smaltire contenenti le sostanze radioattive, cioè i rifiuti propriamente detti, sono di conseguenza nei due casi completamente diversi.

Il problema più complesso dei rifiuti nucleari, di fatto il vero problema della gestione dei rifiuti radioattivi, è costituito da quelli ad alta attività, ovvero a vita lunga, cioè da quei rifiuti che contengono concentrazioni importanti di radioisotopi i cui tempi di decadimento sono dell’ordine delle migliaia o delle decine di migliaia di anni.

Se non avviene il ritrattamento del combustibile irraggiato, esiste una sola specie di rifiuto radioattivo nelle operazioni a valle del reattore, l’elemento di combustibile stesso, ed è ovviamente di alta attività, dato che contiene tutto.

In caso di ritrattamento invece, i materiali di risulta vengono per effetto delle operazioni d’impianto ripartiti in rifiuti ad alta ed a bassa attività, cioè a vita breve, questi ultimi di volume importante anche se di smaltimento definitivo più semplice, in quanto può avvenire in strutture artificiali di superficie, come meglio vedremo in seguito.

In termini volumetrici, i rifiuti ad alta attività vengono ad essere in caso di ritrattamento minori di un fattore circa 4 rispetto al volume del combustibile corrispondente, e sono costituiti da blocchi di vetro in contenitori di acciaio, che hanno elevate caratteristiche di stabilità e di inerzia chimica e fisica, anche superiori all’elemento di combustibile non ritrattato.
E’ in pratica su questo relativo vantaggio, ai fini dello smaltimento, dei rifiuti ad alta attività vetrificati rispetto all’elemento intero (minor volume e materiale più inerte) che mettono l’accento coloro che hanno sostenuto e sostengono l’opportunità di continuare a praticare il ritrattamento del combustibile anche in assenza dell’esigenza energetica di recuperare il plutonio.
Tuttavia, se non serve recuperare il materiale energetico, è difficile giustificare un processo come il ritrattamento del combustibile irraggiato, che consiste di fatto nel sottoporre l’elemento, che è pur sempre una struttura meccanica robusta e durevole, a processi meccanici e chimici complessi che comportano la sua demolizione e dispersione in varie correnti liquide e solide, per poi dover riconvertire tutto quanto in un materiale stabile ed inerte, idoneo per lo smaltimento.
I vantaggi nello smaltimento dei rifiuti ad alta attività invece del combustibile sono essenzialmente legati al minor volume di spazio richiesto per lo smaltimento.


3. Lo smaltimento

Due sono i principi che governano lo smaltimento delle scorie radioattive in un determinato sito: i manufatti condizionati vanno depositati in modo che le sostanze pericolose che contengono non possano venire in contatto diretto o indiretto con la biosfera, cioè con il mondo animale e vegetale circostante; questo contatto deve essere escluso almeno per tutto il periodo in cui permane la pericolosità dei rifiuti.
E’ questo secondo punto che determina la fondamentale differenza tra il deposito definitivo per rifiuti a vita breve e quello per rifiuti a vita lunga.
Come abbiamo visto, ai primi è sufficiente assicurare un periodo di isolamento dell’ordine dei trecento anni perché essi diventino radiologicamente innocui, per i secondi questo periodo può essere di decine o centinaia di migliaia di anni, in certi casi milioni di anni. Trecento anni sono un periodo che possiamo definire storico, diecimila o centomila anni sono un periodo geologico. Mentre è possibile provvedere mediante opere costruite dall’uomo ad un completo ed affidabile isolamento che duri per qualche secolo, per un isolamento che duri per periodi geologici bisogna ricorrere ad altro. 

Nei due casi, ad ogni modo, l’isolamento dalla biosfera viene realizzato interponendo tra la sostanza pericolosa e l’ambiente esterno un sistema di barriere la cui funzione è di impedire la fuoriuscita degli isotopi radioattivi dal deposito in ogni circostanza prevedibile, incluse quelle di carattere incidentale. Siccome l’unico mezzo che può veicolare le sostanze radioattive verso l’esterno è l’acqua, attraverso un meccanismo di solubilizzazione o semplicemente di trascinamento, la funzione delle barriere del deposito è in pratica quella di prevenire che un qualsiasi mezzo acquoso, di qualsiasi origine, venga in contatto con i radionuclidi contenuti nei rifiuti condizionati, e comunque di impedire che, qualora per qualsiasi motivo questo avvenga, non ci sia rilascio alla biosfera di livelli dannosi di dose di radioattività.
La prima di queste barriere è costituita dallo stesso manufatto solido prodotto con il processo di condizionamento, il cui materiale, come abbiamo visto, viene individuato e selezionato proprio per assicurare sia la segregazione delle sostanze radioattive che la sua resistenza ad agenti fisici e chimici esterni. Di per sé, il contenitore di acciaio speciale contenente le scorie condizionate, di cui al momento della produzione vengono accuratamente controllate la tenuta e la saldatura, potrebbe essere depositato a cielo aperto ed esposto per così dire alle intemperie per molti anni senza alcun rilascio e senza subire niente di più di una certa ossidazione superficiale. Ma ovviamente non è questo che avviene: la concezione e le strutture del deposito devono essere tali da fornire barriere supplementari interposte tra il manufatto e l’ambiente esterno.

La sicurezza del deposito sia nel breve che nel lungo periodo si basa quindi sull'affidabilità di queste barriere addizionali, la cui natura dipende ovviamente da quanto a lungo dovrà essere mantenuto l’isolamento. Pertanto, è il tipo di barriere che si predispongono a differenziare radicalmente un deposito per rifiuti a vita breve da quello per rifiuti a vita lunga. Per un deposito di rifiuti a bassa attività per il quale l’isolamento deve essere di durata secolare si usano barriere in calcestruzzo, ed il deposito si può costruire in superficie, o comunque in strati della litosfera prossimi alla superficie. Per quello ad alta attività, in cui si richiede un isolamento per periodi geologici, si usano come barriera giacimenti geologici profondi, che per le loro particolari proprietà possono dare le garanzie richieste.
Per entrambi i tipi di deposito, superficiale e geologico, è necessario dimostrare in sede di progetto che le barriere da predisporre diano le garanzie richieste, cioè che la loro performance sia adeguata per mantenere i rifiuti completamente isolati dalla biosfera per tutto il periodo considerato. Le barriere devono cioè, come si dice in gergo, essere qualificate.
E’ questa qualificazione della barriera che rende, insieme con la adeguata soluzione di arte mineraria da mettere in opera, la realizzazione del deposito geologico di gran lunga più complessa, più lunga e più costosa rispetto al deposito superficiale.
Vediamo di spiegare sinteticamente che cosa si intende per qualificazione delle barriere, perché è proprio essa a costituire il criterio che è alla base della sicurezza di un deposito.

3.1  Lo smaltimento in depositi di superficie o prossimi alla superficie

Nel caso del deposito superficiale si tratta di dimostrare che la geometria delle barriere e la natura del materiale siano adeguati. Si deve quindi non solo assicurare una configurazione del deposito che da un punto di vista costruttivo provveda a interporre tra il manufatto e l’esterno barriere di isolamento, ma soprattutto di essere certi che il materiale impiegato, cioè il calcestruzzo, conservi le proprietà per il tempo richiesto.
Il calcestruzzo, rinforzato o no, ha com’è noto proprietà meccaniche, idrauliche e chimiche che ne fanno un mezzo ideale per garantire una difesa non solo da infiltrazioni acquose anche massicce (si tratta infatti di un legante idraulico), ma anche da penetrazione o impatti meccanici. Qualificare barriere in calcestruzzo significa semplicemente individuare quella formulazione del conglomerato (malta cementizia, granulometria degli inerti, additivi, ecc.,) che sia in grado di assicurare la durabilità richiesta, e sottoporla a verifica mediante prove di vario tipo, incluse quelle cosiddette accelerate, che sono largamente usate e collaudate nella tecnologia del calcestruzzo. Così ad esempio mediante l’immersione per mesi in acqua di grandi provini si simulano gli effetti di una infiltrazione di umidità dal terreno che può protrarsi per secoli.

Si costruiscono oggidì con questo materiale opere ben più complesse e critiche a cui si richiedono vite di progetto secolari e livelli di sicurezza estremi, come grandi ponti ed edifici. (Uno dei casi più recenti è quello della copertura del nuovo padiglione del British Museum di Londra, il cui requisito progettuale è stato una lifetime minima di duecentocinquanta anni. Ma chi avesse dubbi sulla durabilità del calcestruzzo può pensare alla cupola del Pantheon, gettata all’epoca di Adriano, cioè verso il 150 dopo Cristo, e da allora mai nemmeno restaurata significativamente, la quale per di più fu costruita impiegando una malta idraulica rudimentale, ben diversa come qualità da quella che si ottiene con i cementi moderni).
Realizzare barriere in calcestruzzo con cui  isolare in modo affidabile e sicuro dall’ambiente esterno i rifiuti radioattivi a vita breve, e per tutto il tempo necessario al loro decadimento, non presenta quindi problemi tecnici particolari né dal punto di vista dei materiali né tanto meno da quello dell’ingegneria costruttiva.
Ed infatti centri di deposito di questo tipo ne esistono decine al mondo, praticamente in tutti i paesi, ad eccezione dell’Italia, che hanno fatto o fanno ricorso all’energia nucleare, e che quindi detengono quantitativi non trascurabili di scorie radioattive di bassa attività. Come sopra ricordato, circa il 95% delle scorie radioattive prodotte sono di questo tipo, per cui i paesi con produzione elettronucleare, anche modesta, dovranno smaltire quantitativi dell’ordine delle centinaia di migliaia di metri cubi. L’Italia, che pure non ha più produzione energetica nucleare, ne ha accumulati diverse decina di migliaia di metri cubi.
Le strutture di deposito per rifiuti a vita breve sono nella grande maggioranza dei casi realizzate in superficie. Esistono anche casi di depositi in caverna, realizzati comunque con i criteri di isolamento dalla biosfera di quelli di superficie (spettacolare è il deposito svedese, collocato sotto il mar Baltico a circa un chilometro dalla costa). In Ungheria si prevede di realizzare, per i residui a media e bassa attività, un deposito in gallerie orizzontali scavate in formazioni di granito, con barriere quindi parzialmente geologiche.

Nella sua configurazione più generale, un deposito superficiale è costituito da una successione di celle in calcestruzzo armato costruite fuori terra, in cui vengono depositati i manufatti. Tra le pareti esterne delle celle (che costituiscono la barriera più esterna), ed i manufatti, che sono come abbiamo visto la prima barriera, vengono interposti materiali impermeabilizzanti, che in molti casi è ancora una malta cementizia, a costituirne un ulteriore contenimento. L’insieme realizza quindi un sistema multibarriera (quello classico sopra descritto ne ha tre). La loro disposizione in serie garantisce la permanenza di una linea di contenimento nel caso di indebolimento o defaillance della barriera antecedente. Le celle di deposito, una volta riempite con i manufatti condizionati e con il materiale impermeabilizzante frapposto tra i manufatti e le pareti esterne, diventano in pratica dei blocchi di calcestruzzo di grande dimensione e stabilità in cui tra il rifiuto radioattivo e l'ambiente esterno è frapposto uno spessore impermeabile di diversi metri e dotato di grande resistenza meccanica.

Le celle vengono infine ricoperte con strati di terreno speciale, a sua volta dotato di proprietà impermeabilizzanti e/o assorbenti (ad esempio arricchito in argilla), con lo scopo sia di fornire un’ulteriore protezione sia di ricostituire la morfologia iniziale dell’area. L’efficienza delle barriere e dell’isolamento è infine continuamente controllata da sistemi e reti di monitoraggio ambientali, estesi in superficie e in profondità.
C’è poi un’altra barriera, che non è di tipo meccanico ma che è destinata a fornire una difesa supplementare e per così dire di riserva, specie nel lungo periodo: la natura geografica del sito in cui si realizza il deposito. Questi sistemi vengono infatti collocati in siti con caratteristiche geografiche, sia fisiche che antropiche, adeguate e per quanto possibile in grado di non favorire comunque la dispersione dei rifiuti nell’ambiente anche dopo la fine del periodo di conservazione. La natura degli strati superficiali del terreno, l’idrologia superficiale e sotterranea, la climatologia locale, sono tutti elementi attentamente valutati nel corso della selezione del sito o della rosa di siti che normalmente viene preliminarmente individuata in questi casi.
Oltre alle unità di deposito vere e proprie, un centro di smaltimento di questo tipo ospita normalmente installazioni ausiliarie costituite da stazioni di condizionamento locale dei rifiuti, laboratori di analisi e controllo, sistemi remotizzati di movimentazione e trasporto, edifici di servizio e amministrativi, un centro accoglienza, locali per il personale, ecc. L'insieme si configura quindi come un vero e proprio Centro tecnologico, sede di attività tecnicamente qualificate. Alcuni dei più noti centri di questo tipo, come quelli che esistono in Francia, Spagna, Giappone, Svezia, Finlandia, sono diventati mete ricercate di visitatori, costituiti non solo da tecnici e scienziati del ramo provenienti da tutto il mondo, ma anche da gente comune desiderosa di essere informata sul deposito. E’ infatti cura particolare delle autorità nazionali di quei paesi considerarli centri aperti, vere e proprie case di vetro a disposizione del pubblico, in cui capita spesso di trovare, come nei musei, scolaresche in visita.

Sono queste le famigerate discariche nucleari, come troppo spesso ama definirle la grande stampa di informazione, la quale, evidentemente più incline a colpire che informare il proprio pubblico, riprende volentieri il truce frasario degli antinucleari.
I controlli ed i monitoraggi ambientali che si fanno all’esterno di depositi di questo tipo servono in pratica solo a tranquillizzare la popolazione. Gli effetti radiologici all’esterno del deposito sono infatti nulli, e d’altra parte non si vede come possano rilasciare radiazioni o contaminanti blocchi di calcestruzzo in cui le sostanze radioattive, peraltro di bassa attività, sono confinate dietro diversi metri di spessore di calcestruzzo. Chi ha avuto occasione di vedere anche da lontano una vera discarica (per non parlare di chi è costretto a viverci accanto), può forse capire perché abbiamo introdotto il discorso dello smaltimento delle scorie radioattive dichiarando che nessuna attività umana si prende cura dei rifiuti prodotti come quella nucleare.

3.2  I depositi geologici

Quali sono le formazioni geologiche adatte all’isolamento dei rifiuti a vita lunga, e come si qualificano, cioè come si dimostra la loro capacità di assicurare tale isolamento per i lunghissimi periodi necessari?
Devono essere innanzitutto formazioni che, per la loro natura ed origine, sono stabili ed in grado di restare inalterate per periodi che si misurano nella scala dei tempi geologici, che sono appunto dell’ordine delle centinaia di migliaia o milioni di anni. E’ questo il requisito che assicura la durabilità della barriera. In secondo luogo, la roccia che funge da barriera deve essere impermeabile, e ovviamente restarlo per la stessa scala temporale, onde evitare che un qualsiasi mezzo acquoso possa venire in contatto con i rifiuti.
Hanno questi requisiti alcuni giacimenti di rocce sedimentarie di cui c’è grande abbondanza sulla Terra, come i bacini salini, specie quelli di salgemma, formatisi in processi lunghissimi per l’evaporazione di oceani, e quelli argillosi. Presentano simili requisiti di idoneità anche altri particolari tipi di rocce cristalline, come i graniti non fratturati, che sono però non altrettanto diffusi. I giacimenti salini costituiscono un mezzo che potremmo definire ideale. Essendo il sale (nella maggior parte dei casi si tratta di cloruro di sodio, lo stesso che si usa in cucina) altamente solubile, l’esistenza stessa del GIACIMENTO testimonia l’assenza di acqua da epoche geologiche, la cui scomparsa per evaporazione è infatti il fenomeno che ha permesso la formazione del GIACIMENTO. Formatosi in milioni di anni, esso è destinato a restare stabile per periodi dello stesso ordine di grandezza. Inoltre la roccia è abbastanza plastica, quindi in grado di assorbire, senza subire fratture, eventuali sollecitazioni tettoniche alla sua periferia. Anche i bacini argillosi presentano caratteristiche ugualmente favorevoli, per alcuni anzi superiori. Le argille infatti, oltre alle note caratteristiche di stabilità e impermeabilità, hanno proprietà di barriera GEOCHIMICA, il che vuol dire che possono assorbire specie chimiche migranti, che nel lunghissimo periodo potrebbero fuoriuscire dal deposito.
Una volta individuato il GIACIMENTO che per composizione mineralogica, estensione, profondità e localizzazione geografica merita di essere preso in considerazione, e questo si può fare anche a tavolino se esistono carte geologiche adeguate, inizia la fase di verifica e conferma delle reale idoneità della formazione ad ospitare un deposito per rifiuti a vita lunga. E’ questa, per un deposito geologico, l’attività di qualifica della barriera. Si tratta di una fase che è destinata a durare molti anni. Per quella che è l’esperienza e acquisita fino ad oggi, dai venti ai trenta.
Per dimostrare l’efficienza e durabilità della barriera infatti, non ci si è limitati a studiare in laboratorio campioni dei materiali – sale, argille, graniti ed altro - estratti mediante estesi sondaggi, o a fare ricorso ai metodi geofisici di indagine, come peraltro si è sempre fatto nell’arte mineraria per lo studio dei giacimenti. Si sono invece costruiti laboratori sotterranei, vere e proprie miniere sperimentali profonde centinaia di metri, con estensioni orizzontali che possono arrivare a qualche chilometro, scavate direttamente nel mezzo da indagare. Lo scopo è quello di verificare quale sarà il comportamento della barriera naturale in presenza dei materiali da depositare, di valutare i problemi di ingegneria mineraria connessi con la costruzione delle strutture di deposito, di verificare il livello di impermeabilità e diffusività e le proprietà chimiche e fisiche della roccia in esame.

Istallazioni di questo tipo sono state costruite sin dagli anni ’80 in Belgio, Germania, Svezia e Svizzera, USA. Un laboratorio sotterraneo è in attività in Francia dal 2005. In Germania è stata scavata ed operata per oltre dieci anni una vera e propria miniera sperimentale di grande estensione in giacimenti salini che sono tra i migliori (geologicamente) esistenti al mondo.
Sulle formazioni geologiche candidate si sono raccolte tante di quelle informazioni per cui oggi costruire un deposito in profondità – tra i cinquecento ed i mille metri dalla superficie – non presenta più significative incertezze né sul piano dell’ingegneria mineraria né su quello della caratterizzazione chimica, fisica ed idrogeologica della barriera.

Ma come dimostrare che tale barriera resterà efficace anche dopo centomila anni e più?
Se la scienza della terra ci dice ad esempio qual è l’età di un GIACIMENTO di salgemma o di argilla (sempre dell’ordine dei milioni di anni), il GIACIMENTO si può considerare stabile per periodi della stessa lunghezza, in quanto le sue eventuali modifiche (per esempio l’irrompere di nuovo di un oceano in un bacino continentale di salgemma) sicuramente procedono a loro volta con velocità geologiche, cioè anch’esse richiederebbero milioni di anni.
Il mezzo geologico giudicato idoneo viene studiato in situ, mediante i laboratori sotterranei, in tutti i suoi aspetti connessi con la GEOCHIMICA, con la mobilità delle varie specie chimiche costituenti i rifiuti alla TRASMISSIONE del calore, con la meccanica delle rocce e con la litografia degli strati esterni e periferici al GIACIMENTO.
Le attività sperimentali in corso nei laboratori sotterranei sopra menzionati sono dirette, oltre che allo studio del comportamento in situ di materiali e strutture, anche alla validazione dei modelli matematici impiegati per le analisi. Con i codici sviluppati e verificati è così possibile calcolare quale può essere, ad esempio, il movimento del plutonio nel mezzo geologico dopo diecimila, centomila o un milione di anni.
Perché la barriera venga considerata idonea e qualificata, e quindi per essere autorizzata la costruzione del deposito, i calcoli devono mostrare in sede di progetto che non si ha rilascio pericoloso per un dato periodo, che nei paesi europei si estende anche al milione di anni. In USA, fino al 2005 le analisi di lungo periodo si arrestavano ai diecimila anni. Attualmente, sotto la spinta delle contestazioni di associazioni ambientaliste, questo limite è stato portato a centomila anni.
Data la natura e la stabilità dei mezzi geologici, non è peraltro difficile dimostrare con i calcoli di cinetica che la migrazione eventuale dei radionuclidi attraverso la barriera geologica avviene con velocità infinitamente piccole, se ovviamente il mezzo geologico viene scelto di caratteristiche adeguate.

I depositi in profondità  sono ancora nella fase di studio o di realizzazione pilota nei casi più avanzati. In USA è in esercizio dal Maggio 1999 il WIPP (Waste Isolation Pilot Plant), un impianto per lo smaltimento dei rifiuti a vita lunga plutoniferi prodotti nei centri del governo federale (cioè i rifiuti prodotti durante le produzioni di tipo militare). Il WIPP è praticamente il primo ed unico deposito di smaltimento geologico al mondo, anche se le sue finalità sono particolari e comunque non è destinato ai rifiuti radioattivi ad alta attività di tipo classico e di provenienza commerciale (rifiuti vetrificati o combustibile irraggiato).
Secondo le attuali previsioni, il primo deposito geologico di tipo commerciale dovrebbe essere quello svedese, la cui entrata in operazione è programmata per il 2018, seguito da quello finlandese previsto più o meno nello steso periodo.

In attesa di disporre di un sito di smaltimento geologico, i paesi con importanti produzioni di combustibile irraggiato o rifiuti vetrificati si sono attrezzati con sistemi impiantistici adatti allo STOCCAGGIO per periodi dell’ordine di qualche decennio ed oltre.

Il concetto di deposito geologico ha conosciuto una evoluzione in tempi recenti per fronteggiare i problemi di accettabilità sociale e di consenso per la localizzazione dei depositi. In particolare, sono oggetto di discussione principalmente su due aspetti .

- la ricuperabilità dei rifiuti in un periodo transitorio definito  (ad esempio qualche secolo);
- le barriere artificiali da concepire e mettere in opera per gestire il periodo transitorio.

La complessità della realizzazione di un deposito geologico ed i costi associati (che sono dell’ordine dei miliardi di Euro) sono tali da rendere difficilmente praticabile una soluzione di questo tipo per paesi che detengono quantitativi modesti di materiali ad alta attività (rifiuti a vita lunga o combustibili nucleari non ritrattati).
Per questo comincia a farsi strada l’idea del ricorso ad un deposito geologico internazionale, di tipo regionale o continentale, destinato cioè ad accogliere i rifiuti a vita lunga di diversi paesi di una determinata area geografica, per i quali individualmente non sarebbe logico né giustificato destinare investimenti massicci per lo smaltimento che piccoli quantitativi di rifiuti a vita lunga.
Un soluzione del genere sarebbe anche ambientalmente più compatibile, se si considera la protezione dell’ambiente in una scala geografica più ampia di quella nazionale. La praticabilità sociale e politica di una simile soluzione costituisce, nella presente fase storica, il problema più importante.
Il deposito internazionale è tuttavia una soluzione destinata a farsi strada nel medio periodo, ed alla sua accettabilità socio-politica potrà probabilmente dare un contributo decisivo la messa in esercizio di uno dei grandi depositi nazionali previsti.


1 Nella pratica operativa e talvolta nei sistemi nazionali e internazionali capita di trovare denominazioni particolari e classificazioni più articolate, le quali sono tuttavia in ultima analisi riconducibili a queste due categorie fondamentali, in quanto ad esse corrispondono due esigenze fondamentalmente diverse per lo smaltimento. Anche a scopo di semplificazione, faremo qui riferimento quindi a questa classificazione di base.