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La contestazione ecologica - Giorgio Nebbia -

Fin dal secolo scorso si sono avvertiti i segni che un uso eccessivo e irrazionale delle risorse della natura portava ad un impoverimento delle foreste e della fertilità dei campi, ad alterazione dell'aria e delle acque.
Già nel 1800 si sono avute proteste contro l'INQUINAMENTO industriale e leggi contro le fabbriche e le attività inquinanti; si è trattato, peraltro, di proteste locali ispirate alla salvaguardia della proprietà privata di alcuni soggetti economici "inquinati".
Segni più gravi di alterazione ambientale si sono cominciati ad avere alla fine del 1800 con la diffusione delle colture intensive, con il crescente uso di concimi, con la diffusione dei grandi allevamenti.
La risposta ad una crescente domanda di alimenti e di merci da parte di una popolazione crescente richiedeva un più intenso sfruttamento delle risorse della natura.
Ben presto si sono visti gli effetti di tale sfruttamento: negli Stati Uniti la corsa verso l'ovest dei coloni ha portato alla distruzione dei pascoli e degli animali selvaggi che li abitavano, al taglio indiscriminato delle foreste.
Il crescente INQUINAMENTO industriale, la congestione delle megalopoli, l'uso di pesticidi e la contaminazione radioattiva hanno dato vita, a partire dagli anni quaranta, ad un movimento di contestazione esploso alla fine degli anni sessanta.
Uno dei punti centrali della contestazione ecologica fu rivolto contro l'"economia".
Le leggi economiche correnti impongono di rendere massima la creazione di denaro, come profitto privato o come ricchezza nazionale, espressa, quest'ultima, nell'indicatore "prodotto interno lordo", una grandezza introdotta negli anni trenta dall'economista inglese Colin Clark.
L'aumento sia del profitto privato sia della ricchezza nazionale si può realizzare soltanto attraverso un aumento della produzione e del consumo delle merci e, inevitabilmente, per il principio di conservazione della materia e dell'energia, tale aumento comporta un impoverimento delle risorse naturali e l'immissione di scorie nell'ambiente, cioe' un peggioramento della qualita' delle risorse naturali restanti.
Appare oggi sempre più evidente che la crisi ambientale può essere superata soltanto ricorrendo, insieme, a strumenti tecnici e a strumenti economici.
L'opinione pubblica associa la crisi ambientale a parole come INQUINAMENTO, petrolio nel mare, congestione del traffico, incendi dei boschi, erosione del suolo.
Una crisi, le cui radici affondano nella notte dei tempi: quando gli esseri umani si sono differenziati dai loro simili, circa due milioni di anni fa, una nuova forza, capace di modificare il mondo circostante, ha cominciato a manifestarsi nella natura.
Per alcune migliaia di secoli gli esseri umani hanno però modificato molto poco l'ambiente naturale: essi vivevano in piccole comunità sparse su un pianeta grandissimo, traevano il cibo dai frutti e dai tuberi delle piante e dagli animali selvaggi.
La prima grande svolta nei rapporti fra gli esseri umani e la natura si è avuta, come è ben noto, nella transizione dal Paleolitico al Neolitico con la rivoluzione agricola di circa 10.000 anni fa, in una Terra che ormai rassomigliava, come clima, vegetazione, fauna, estensione dei mari e forma dei continenti, a quella che conosciamo oggi.
Sorsero da allora i primi villaggi di coltivatori e allevatori; alcuni di tali villaggi si trasformarono più tardi in città e cominciarono a scambiarsi merci e manufatti - sale, rame, ceramiche; si formarono poi i primi imperi per la conquista di miniere, terre coltivabili, materie prime, prodotti pregiati.